… Formaeterrae …
testo di Guglielmo Gigliotti


PICCOLA | MEDIA | ORIGINALE

PICCOLA | MEDIA | ORIGINALE

PICCOLA | MEDIA | ORIGINALE

PICCOLA | MEDIA | ORIGINALE

PICCOLA | MEDIA | ORIGINALE
 
TERESA POLLIDORI
… Formaeterrae
 
Martedì 15 gennaio al 1 febbraio.2002
Roma Studio Arte Fuori Centro,
 
L’idea di partenza come sottolinea puntualmente Guglielmo Gigliotti nel testo critico in catalogo, è quella antica delle formelle, ma completamente sovvertito è il rapporto con lo spazio. La superficie volutamente rozza della terracotta è inaspettatamente animata da segni plastici di piombo, che incuneandosi in essa fendono lo spazio. Sono segni minimali e calibrati, come elementare e misurata è la forma delle terre ad evocare l’ossessiva ricerca di equilibrio tra la staticità delle strutture primarie e il movimento del continuo divenire. Esemplare è, pure, il bisogno conclamato di sedimentare gli stimoli provenienti dall’ambiente esterno, come anche la necessità mai elusa di rapportarsi con la storia e la tradizione, affiancata sempre al naturale desiderio di cambiamento e rinnovamento, che la spinge con esiti diversi, ma tuttavia ugualmente interessanti, a raffrontarsi con il presente per guardare oltre.
la mostra fa parte del ciclo di sei mostre personali diOriano Zampieri, Vincenzo Ludovici, Antonio Gabriele, Massimo Luccioli e Riccardo Monachesi dal titolo Keramos. Rassegna di scultura in terracotta, un’indagine intorno ad una delle materie più utilizzate nell’arte contemporanea ideata e curata dai critici Ivana D’Agostino e Loredana Rea.
 
 
 
TERESA POLLIDORI
…Formaeterrae
Testo critico di Guglielmo Gigliotti
 
C’è qualcuno che resiste al fascino del cotto? Alla sua densità, ai suoi significati, alla sua antica elementarità? Non credo. La terracotta evoca sensazioni di piacevolezza, di calore, di quiete, di riposo, di silente presenza, discreta ma intensa, che non permette di non essere amata.
La sua magia è nelle parole che la definiscono: terra cotta. Terra, ovvero argilla formatasi con il consolidamento di fango alluvionale, e dunque di antica memoria, modellata, seccata, cotta in forno ad alte temperature, sposatasi, dunque, col fuoco, un fuoco amico.
Il cotto è tattilità, è un invito a toccare, carezzare, poggiare mani sulla sua pelle ruvida ma non ostile, bensì ospitale; il cotto è cromia indefinibile tra il bruno e l’ocra, un tono pieno di sé, che non urla, ma rassicura, accoglie lo sguardo che in esso è invitato ad espandersi; il cotto è il tempo andato, è testimonianza di civiltà “povere”, come quelle contadine di poco fa o quelle arcaiche, così lontane; il cotto è lontananza che si fa presenza.
Il cotto è tutto questo, ed implica, quindi, per chi lo manipola, un grande rischio, il rischio di violare la sua integrità di materia e di significati, il suo equilibrio che ne fa sostanza autosufficiente, ricca in sé.
Non esiste materiale meno retorico della terracotta, e basterebbe poco per infrangere la sua serena austerità. L’approccio ad esso, quindi, non può che essere sereno e austero, ridotto ai minimi termini, alla lieve manipolazione, all’intervento calibrato, fondato sull’ascolto di ciò che si ha tra le mani.
Teresa Pollidori la terracotta la fa cantare in formelle regolari, elementari quadrati, che non pongono il problema della forma, perché la terracotta è al contempo contenuto e contenitore, ovvero problema formale risolto in sé, col semplice fenomenico apparire. Non è questione morfologica, quindi, quella sollevata dalla Pollidori, ma schiettamente materiologica. E’, questa, la premessa fondamentale perché delle formelle in terracotta, rispettate nel loro nucleo di significati e comunicatività implicite nella materia, possano divenire vocabolo di un discorso altro, che comprenda la semplice magia della terracotta, ma sia in grado anche di tenere la sfida con lo spazio. Vocabolo “povero”, si è detto, e valorizzato in quanto tale, ma proprio per questo pregno di una disponibilità ad articolarsi nello spazio, a farsi progetto ambientale, o “esercizio di stile”, come recita il sottotitolo di due delle quattro opere in mostra.
Sono “Spazio” e “Ritmo”. “Spazio” consta di due formelle, da cui si dipartono due stecche, una rigida e un che lievemente si flette, suggerendo, nel loro misurare lo spazio della parete su cui sono addossate, una confluenza sempre rimandata. Con una regia di segni essenziali e misurati, qui è la spazialità bianca del muro che risuona nelle potenzialità evocate, nelle tensioni fatte emergere da un tracciato di linee che si radicano nella terra cotta delle basi.
“Ritmo”, come la precedente, si sviluppa sulla parete, ma non per sondarne i segreti, quanto per ipotizzare la musicalità, appunto, della sua natura ritmica. Ciascun elemento dell’opera, reiterato con lievi modifiche, è costituito dal sovrapporsi del vocabolo-formella ad una lastra lignea, dipinta di grigio, integra nella parte superiore, ma disposta in strisce in quella inferiore. E siccome la formella mostra, nel lembo inferiore, una leggera flessione, l’immagine evocata è quella di onde che si sfiorano, poi si incontrano, per ridividersi nuovamente, essendosi scambiate qualcosa l’un l’altra. Il ritmo secco della disposizione parietale, in questo modo, sembra trovare la sua risoluzione fluida, in quanto capace di sciogliere la regola della cadenza in un immagine di liquida apparenza.
Poi c’è “Keramos violato”, l’installazione al pavimento. I “vocaboli” in terracotta qui sono nove, disposti in tre file da tre. Spuntoni in piombo ne trafiggono la superficie, ferendola e “violandola”. E’ la registrazione di un incidente, di una rottura della materia-forma, che ne appalesa la fragilità. La rottura, tuttavia, non segna contrapposizioni, la ferita non sanguina, l’equilibrio infranto ritrova un suo assestamento, perché il nuovo organismo nato dalla terracotta e dal piombo, ritrova, nei colori opachi dei due materiali, nella loro natura grezza, una unità di possibile convivenza tonale.
E’ lo stesso tema di “Fractura”, pezzo unico, incastonato in una cornice di legno. Qui la formella, trattata con vernice, è spaccata, divelta da un elemento tubolare in piombo, che fa pensare alla paziente potenza delle radici, quando sconfiggono, nelle nostre strade metropolitane, la compattezza dell’asfalto. Anche qui la “fractura” si tramuta in opportunità di nuovi segni, di fessure e tagli che continuano a raccontarci delle cose che si rompono per rigenerarsi. La terracotta non si snatura, infatti, si apre tutt’al più all’accoglienza di un corpo estraneo, a sua volta incorporandolo in un nuovo assetto. Al rischio di disintegrarsi, la terracotta di Teresa Pollidori risponde con l’integrazione di sé con l’altro, della ferita con la forma-materia. Si scopre, così, che la “keramos violata” nient’altro è che un nuovo capitolo del lungo racconto della terra che è stata cotta.