Infrafessure
a cura di Ivana D'Agostino

 
 
 
Roma, galleria La Cuba D’Oro
Dal 4 al 18 dicembre 1997
 
 
 
Teresa Pollidori
Infrafessure
 
 
E’ ormai di lunga data la frequentazione dello studio di Teresa Pollidori, il mio rituale periodico viatico al luogo dove le idee dell’artista nascono e si sviluppano attraverso disegni, modellini, sperimentazioni di materiali differenti che, in ultima analisi, la conducono ad elaborare la scultura vera e propria.
Lo studio dell’artista è lo spazio imprescindibile, indispensabile per approfondirne la comprensione e l’iter evolutivo delle opere: tra l’artista – in questo caso una scultrice – le sue sculture e il luogo in cui esse nascono si stabilisce un rapporto simbiotico stringente, la cui presa di visione ritengo indispensabile ad una lettura attenta di tutto quanto può concorrere a far conoscere profondamente il complesso percorso compiuto nel passaggio dall’idea all’opera in sé.
E’ qui, nel luogo in cui il pensiero prende forma plastica che si discute, che ci si confronta, che parlando nascono nuove soluzioni, che si sente quanto il lavoro ed il pensiero che gli si sottende siano cresciuti, maturati, abbiano potuto, insieme, far progredire la ricerca. Ed è proprio qui, nello studio di Teresa che più di un anno fa quando ci si incontrava per la presentazione della sua mostra Tracce disseminate, già comparivano analizzate in nuce soluzioni plastiche diverse rispetto a quelle oggetto di quella mostra; tanto da farmi scrivere a conclusione della presentazione di quel catalogo, che si data dicembre 1995, che “nello studio dell’artista già compaiono modellini in scala di scultureche si intuiscono imponenti, progettate per mostrare filtrata la luce attraverso apposite fessure”.
Premonimenti, anticipazioni, quindi, di un nuovo filone di ricerca in cui la scultura, forma plastica per eccellenza, coglibile nella sua consistenza ponderale e materia si misura con la luce, per sua definizione fisica inconsistente ed impalpabile. Tuttavia il rapporto stabilito tra scultura e luce dalla Pollidori non è dichiaratamente scoperto, nel senso che l'irradiazione luminosa non si gioca a pieno campo sulla materia plastica. Si tratta piuttosto di un rapporto sottile, insinuante fatto di raggi di luce che s'infiltrano negli interstizi, che s'incuneano tra i volumi plastici per mostrare appena, per fare intravedere. La luce usata da Teresa suona le corde dell'indistinto, dell'indefinito. Passa attraverso il suggerire dei sottotoni, non si rivela mai apertamente.
Il raggio luminoso nella penombra dello spazio, passando attraverso le fessure scultoree stabilisce un sottile balenio, che dall'interno della forma proietta nell'ambiente un percorso di luce, quasi a volere indicare possibili, probabili tracciati di un potenziale viaggio alla scoperta dell'infinito.
E' come se la luce e le ombre conseguenti ridefinissero lo spazio dilatandolo al di là dei suoi confini per un oltre cosmico.
La luce si combina con il suono ne Le voci di dentro.
Da questo cubo scultoreo fuoriescono in sordina voci di bimbi che si perdono in lontananza nel loro chiacchiericcio spensierato: la conchiusione tetragona stabilmente solida del cubo, resa simbolicamente ancora più pesante dal piombo di cui è rivestito, viene contraddetta dalle libere e gioiose voci dei bambini, che premendo dal didentro ne squadernano i piani delle facce, tanto da destabilizzarne le certezze facendo intravedere tra le sconnessioni sottili lame di luce.
Ma la luce oltre che intravedersi può anche scivolare sulle superfici e nel canale di rame, come nella scultura a parete In principio erat. Oppure può mostrare, rivelandolo, l’interno della forma plastica nel modo delle sfoglie di piombo di Autofania, che attraverso la luce, in questo caso accresciuta di una valenza sacrale, si prestano ad essere lette come autorivelazione della scultura.
Luce, ancora, come sbirciare sollevando qualcosa per intravedere ciò che sta sotto senza tuttavia distinguerlo nettamente. Il segno e il senso mette in gioco il contrasto scultoreo tra il lucido del piombo e l’opaco della terracotta, tra la duttilità e la plasmabilità della materia attraverso cui si realizza la capacità di incidere dell’una sull’altra; lo spiraglio luminoso mediante cui sbirciare si origina proprio dall’incontro tra queste due nature diverse.
E sono ancora suoni, o per meglio dire i rumori del sottobosco quelli che si percepiscono ora vicini ora più lontani tra i tronchi di una metaforica foresta pietrificata, in   Wald.
Teresa, attraverso questo assemblaggio di matrice poverista fatto di legni di recupero legati con il piombo in modo non così casuale come vorrebbe apparire, realizza il suo bosco. E’ il suo viaggio di eroina errante, i cui sentieri che conducono alla meta le vengono indicati dai sottili raggi di luce che s’infiltrano tra i tronchi e tra i rami.
Un viaggio è ancora all’origine del tema ispirativi di Orfeo ed Euridice. E’ uno scendere ma anche un risalire, un affiorare per poi sprofondare in un luogo architettonico-scultoreo.
E’ ancora un cubo di piombo l’elemento base anche di questa scultura, ora però incassato in una cornice plastica anch’essa di colore plumbeo. Ma quata volta la discesa agli inferi di Euridice si concluderà diversamente. Tant’è che la luce che anche qui squaderna i piani affiorando tra gli interstizi aperti tra le facce, rende possibile credere della sua risalita alla vita.
 
Roma, 30 ottobre 1997