Oltre l’impressione
Galleria Manidesign - Napoli
a cura di Simona Perchiazzi
testo in catalogo di Enzo Battarra
23 Gennaio - 7 Febbraio 2009
C’è un angolo della memoria, un archivio delle impressioni, dove si conservano dentro ogni persona gli eventi più straordinari, gli impatti che hanno lasciato appunto un segno.
La visita di uno spazio vuoto, vissuto, è il modo per percepire la storia di quel luogo, è la ricerca dei segni di molteplici passaggi, è l’ansia di una scoperta.
…La mostra di Teresa Pollidori inizia nel momento in cui l’artista effettua il rituale sopralluogo dello spazio espositivo. È in quell’occasione che vengono scattate le immagini fotografiche dello stato dei luoghi, cogliendo i particolari architettonici, ma anche le luci e i colori degli ambienti.
…Lo spazio espositivo viene reso proprio dall’artista, interiorizzato, fino a diventare il luogo che appartiene a sé, lo spazio mentale operativo, la quinta teatrale per la messa in scena della propria performance visiva.
Anche questa mostra nasce da un sopralluogo, è vissuta giorno dopo giorno nello studio dell’artista, ovvero nel suo computer…Questa pittura digitale è la ricostruzione fantastica di un mondo che non c’è più nel momento in cui l’arte invade l’architettura, riproducendola e sovvertendola. Una parete si sfonda per poter andare oltre la visione, oltre l’impressione.
Oltre l’impressione
Enzo Battarra
L’impressione è il segno di un passaggio. Su una superficie, su un oggetto, sulla corteccia cerebrale.
Si resta impressionati da una visione, da un luogo, da un avvenimento. Si resta impressionati e l’impressione genera un ricordo.
C’è un angolo della memoria, un archivio delle impressioni, dove si conservano dentro ogni persona gli eventi più straordinari, gli impatti che hanno lasciato appunto un segno.
La visita di uno spazio vuoto, vissuto, è il modo per percepire la storia di quel luogo, è la ricerca dei segni di molteplici passaggi, è l’ansia di una scoperta.
E se quello spazio è stato o sarà un luogo deputato all’arte, pronto a ospitare i segni di una creatività visiva, allora le suggestioni legate al suo attraversamento si moltiplicano e la stessa architettura è vista nell’ottica di una rivisitazione artistica.
La mostra di Teresa Pollidori inizia nel momento in cui l’artista effettua il rituale sopralluogo dello spazio espositivo. È in quell’occasione che vengono scattate le immagini fotografiche dello stato dei luoghi, cogliendo i particolari architettonici, ma anche le luci e i colori degli ambienti.
Questi scatti fotografici digitali divengono il substrato, la piattaforma emotiva, su cui costruire le immagini della mostra. Ogni click diviene un’impressione, prende corpo su superfici di grande formato, che restituiscono le visioni, le prospettive, i dettagli catturati nel corso della visita.
Lo spazio espositivo viene reso proprio dall’artista, interiorizzato, fino a diventare il luogo che appartiene a sé, lo spazio mentale operativo, la quinta teatrale per la messa in scena della propria performance visiva.
Anche questa mostra nasce da un sopralluogo, è vissuta giorno dopo giorno nello studio dell’artista, ovvero nel suo computer, per poi arrivare al momento espositivo che è la ricostruzione della scena del delitto, una ricostruzione fatta di inquadrature soggettive, di bagliori che illuminano l’architettura, una ricomposizione fatta di scale, di pareti e di luci che squarciano il buio.
Le sale espositive della galleria Manidesign vivono così un’esaltazione del teatro nel teatro. La visita della mostra è la visita dello spazio riportato nelle opere. Il luogo si specchia nel suo non-luogo, si identifica nella sua rappresentazione fotografica su superficie, ma perde la terza dimensione e acquisisce l’impressione di sé.
Teresa Pollidori va oltre questo raffinato meccanismo culturale della visione, va oltre l’impressione. La ripresa fotografica perde un pezzo di sé, un rettangolo laterale della visione, che poi va ad affiancarsi nella ricostruzione totale dell’opera, portando il segno però del distacco, della separazione.
Oltre l’impressione, c’è la perdita della propria integrità, c’è l’enucleazione di una parte, c’è lo smarrimento dell’immagine completa. È come se una parte del ricordo venisse espulsa per poi essere reintegrata “a latere”. Alla perdita del centro si contrappone la perdita di un lato della visione, tale da modificare tutti gli equilibri della composizione. È un sovvertimento dello stato dei luoghi, è una trasgressione dell’unicità dello spazio.
È così che una pittura digitale avvolge le pareti, riuscendo a estraniarsi dalla realtà dei luoghi, pur partendo dall’impressione degli stessi spazi. E per il visitatore ci sarà da ricomporre il puzzle, scoprendo la provenienza dei singoli dettagli, indagando sui corpi illuminanti, cercando pezzo per pezzo di seguire le tracce di un attraversamento.
In tutto questo inseguimento, l’artista è già oltre, dentro la ferita longitudinale dell’opera, nel vuoto che attraversa dall’alto in basso l’immagine e che ne separa le due parti. È quello il rifugio, il luogo dell’assenza, la strettoia per accedere alla parete reale.
Questa pittura digitale è la ricostruzione fantastica di un mondo che non c’è più nel momento in cui l’arte invade l’architettura, riproducendola e sovvertendola. Una parete si sfonda per poter andare oltre la visione, oltre l’impressione.
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