Racconti di Luce e D’ombra
a cura di Loredana Rea

VI Festival Internazionale di Fotografia
 
Roma - Accademia di Romania
8 maggio - 23 maggio 2007
a cura di  Loredana Rea.
L’idea che sta alla base dell’esposizione è il desiderio di proporre, attraverso un nucleo di opere realizzate in questi ultimi anni da tre fotografi differenti per formazione ed esiti di ricerca: Maristella Campolunghi, Teresa Pollidori, Nicola Giuseppe Smerilli, un percorso articolato nella realtà del quotidiano per lasciare emergere la sottile poesia che lo attraversa.
Il punto di partenza intorno cui è stato articolato il percorso espositivo, composto da poco meno di 20 immagini di grosse dimensioni (cm 150x100 e 70x100) è la volontà di lasciare emergere i segni di un linguaggio astraente che da una parte racconti la pienezza della mondo e dall’altra porti alla ricostruzione di una dimensione della realtà assolutamente interiorizzata, giocando sull’ambiguità insita nella fotografia di moltiplicare all’infinito il meccanismo di continuo slittamento del reale nell’illusione, per creare immagini capaci di innescare una riflessione sulla densità della realtà e sulla sua affascinante ambiguità.
Ad interessare Campolunghi, Pollidori e Smerilli è il desiderio di confrontarsi con la quotidianità, per forzare gli asfittici confini, nell’intenzione di comprenderne il senso e superare l’inquietante precarietà che lo pervade. Proprio la possibilità di confrontarsi con il mondo esterno, in una sorta di continuo dialogo tra il dentro e il fuori, di cui il linguaggio fotografico con i suoi calibrati effetti di luce e di ombra, di colori e di bianco e nero, è interprete privilegiato, offre ad ognuno di essi, al di là delle inevitabili differenze formali, l’occasione per penetrare nelle cose e restituirle in una dimensione di irreale realtà.
 
 
Racconti di Luce e D’ombra
Maristella Campolunghi Teresa Pollidori Nicola Giuseppe Smerilli
 
Se si intende la fotografia non come uno strumento per documentare il reale, ma come un complesso sistema di segni per raccontarlo attraverso frammenti, enigmatici eppure fortemente evocativi, allora si comprende perché la ricerca fotografica di Maristella Campolunghi, Teresa Pollidori e Nicola Giuseppe Smerilli, diversi per formazione culturale, approcci metodologici ed esiti formali, non possa essere riduttivamente intesa come il mezzo privilegiato per appropriarsi della realtà, quanto piuttosto come l’opportunità per tessere di essa una nuova trama, capace di esprimerne tutta l’articolazione e, soprattutto, capace di lasciare emergere la sottile poesia che l’attraversa.
La realtà è l’imprescindibile punto di partenza, mentre l’obiettivo è andare oltre, per arrivare alla creazione di un linguaggio astraente che da una parte renda visibili i segni della pienezza della mondo e dall’altra porti alla ricostruzione di una dimensione spesso completamente interiorizzata, che della prima mantiene inalterate persistenze iconiche e profondità mnemoniche, giocando con lucida ricercatezza sull’ambiguità insita nella fotografia di moltiplicare all’infinito il meccanismo di continuo slittamento della realtà nell’immagine, costruita con sapienza per penetrare nella profondità delle cose e restituirle in una visione di assoluta intangibilità.
L’obiettivo della macchina fotografica cattura il reale, sia pure per significativi frammenti, ma non lo possiede. Lo imprigiona in tagli inusuali e spaesanti, in immagini emblematiche, in tracce che custodiscono nel tempo i segni inequivocabili dell’esistenza. L’assunto è innescare una riflessione sulla densità della realtà a partire da se stessi, per superare i provvisori confini tracciati dal proprio sguardo e confrontarsi con il mondo esterno, in una sorta di inarrestabile e fertile dialogo tra il dentro e il fuori, di cui il linguaggio fotografico con i suoi calibrati rapporti di luce e di ombra, di colori e di bianco e nero, è unico possibile interprete. Ad interessare è la necessità di confrontarsi con la quotidianità, nell’intenzione di comprenderne il senso e superare l’inquietante instabilità che la pervade. Ne consegue che è netto il rifiuto di porsi frontalmente rispetto alle cose, rinunciando a ogni tentazione di registrare, per mostrare, invece, quanto attraverso l’obiettivo esse appaiano differenti. Ciò che attrae è la lateralità, che permette di guardare il reale, ma anche di superarlo, trasformando la realtà fotografata in immagine sinteticamente trasfigurata, familiare eppure inevitabilmente altra.
I percorsi sperimentali di Campolunghi, Pollidori e Smerilli, pur nelle loro macroscopiche distanze concettuali e tecniche, se analizzati in questa prospettiva critica si presentano allora strettamente connessi: la macchina fotografica permette di insinuarsi insidiosamente nella realtà, per decontestualizzarla e defamiliarizzarla, senza però mai annullarla completamente, schivando il pericolo di quel naturalismo insito nel meccanismo mimetico della fotografia stessa e accentuando il divario tra l’immagine fotografata e il dato da cui essa deriva, così che si possa arrivare a suggerire circostanze alternative al di là del semplice richiamo al reale e alla sua rappresentazione, dal momento che, sottraendo un dato alle sue relazioni d’insieme, lo si modifica di segno in maniera definitiva. I tagli effettuati con studiata precisione costringono, infatti, la realtà in una ricercata assolutezza, in una misurata astrazione, restituendola artefatta, eppure comunque assolutamente vera, mentre l’obiettivo funziona come la lente di un microscopio: rende il reale intimamente ambiguo, evidenziando quanto a occhio nudo risulta invisibile e, nello stesso tempo, sposta l’attenzione dalla realtà alla sua immagine ricostruita attraverso la fotografia e, poi, da essa alle modalità della sua realizzazione, ossia all’analisi segni e alle stringenti relazioni esistenti tra loro.
Loredana Rea